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L’Istituto dell’immunità diplomatica in pericolo? PDF Stampa E-mail
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Notizie - Colonnisti
Lunedì 25 Marzo 2013 19:04

India vs. Italia: l’immunità diplomatica e l’inviolabilità personale dell’ambasciatore è assoluta.

 Il capo missione italiano Daniele Mancini, come ogni diplomatico che opera per conto del proprio Stato, ha dei privilegi che sono garantiti dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 e la sua persona, in quanto agente diplomatico, è assoluta ed inviolabile.
 Come ho avuto già modo di affrontare tale questione nel mio precedente scritto inerente l’inviolabilità personale del rappresentante diplomatico italiano, il tutto è iniziato nel momento in cui le autorità del governo italiano hanno deciso e dato ordine ai due marò della marina militare italiana di non rientrare in India, sostenendo che il caso dei suoi due Fucilieri di Marina debba essere risolto secondo il diritto internazionale – dopo alcuni giorni e forti pressioni indiane, c’è stato il dietrofront del governo italiano (uno dei peggiori della storia della repubblica italiana).
 La mancanza da parte italiana di non adempiere ad un accordo preso, ha spinto l’Alta Corte di Nuova Delhi ad emettere l’ordine vincolante nei riguardi del diplomatico italiano a non lasciare l’India e la potenziale possibilità di procedimenti per oltraggio nei riguardi dell’ambasciatore; tali  atteggiamenti indiani sono da considerare illeciti ovvero senza un fondamento giuridico. Indubbiamente, le autorità del governo italiano hanno depositato un’istanza scritta per il tramite dell’ambasciatore e hanno sottoposto un affidavit – cioè una dichiarazione giurata – asserendo che i due marò avrebbero fatto rientro dopo le elezioni politiche in India. Tuttavia, quei fatti assieme alla nota verbale del governo italiano, in cui veniva deciso per il non ritorno in India dei due Fucilieri della Marina militare italiana, non hanno fornito basi giuridiche sufficienti per agire contro il rappresentante diplomatico Daniele Mancini. L’ordine di trattenere l’ambasciatore italiano e le procedure adottate dalla Corte sul dipl omatico sono una grave violazione degli obblighi dell’India ad attuare l’Istituto dell’immunità diplomatica, enunciato nella Convenzione di Vienna del 1961.
 Nella Costituzione indiana si richiede l’iter parlamentare per rendere esecutivo qualsiasi accordo o trattato internazionale. Alla luce di questa disposizione, il Parlamento ha emanato la ratifica ed esecuzione della Convenzione di Vienna del 1961 nel proprio ordinamento nel 1972, al fine di porre in essere gli obblighi da parte dell’India di rispettare e mettere in pratica quanto sancito nella Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche. In questa struttura giuridica, nell’attuale contesto, sorgono due punti: il primo concerne se vi erano fondamenti giuridici per l’Alta Corte di ordinare all’ambasciatore italiano di non lasciare il suolo indiano; il secondo riguarda se il procedimento per oltraggio alla Corte possa essere istituito nei riguardi della persona dell’agente diplomatico italiano per non aver adempiuto all’impegno sottoscritto nell’affidavit e sottoposto all’Alta Corte.
 L’ordine dell’Alta Corte di trattenere il diplomatico italiano è in contrasto con la garanzia ovvero l’assicurazione dell’inviolabilità personale degli agenti diplomatici. Infatti, proprio  nell’articolo 29 si delinea che la persona dell’agente diplomatico è inviolabile. Egli non può essere sottoposto ad alcuna forma di arresto o di detenzione e lo Stato accreditatario lo tratta con il rispetto dovutogli e provvede adeguatamente ad impedire ogni offesa alla persona, libertà e dignità dello stesso. Sebbene sia chiaro che, in questo caso, l’ambasciatore italiano aveva agito nella sua veste ufficiale, mentre presentava il c.d. affidavit, cioè l’atto scritto di garanzia o giuramento all’Alta Corte, l’articolo, di cui si sta trattando, andrebbe a proteggerlo da ogni forma di arresto e detenzione anche se le sue azioni possano essere considerate di natura personale. È precisamente per evitare di considerare un agente diplomatico responsabile per gli atti dello Stato d’invio che l’articolo 29 dà protezione dall’essere soggetto ad ogni forma di arresto e detenzione.
 Sulla questione se l’ordine al diplomatico italiano di non lasciare il suolo indiano equivale al fermo, secondo l’articolo 29. Il giudizio, ad esempio, emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia nella vicenda Repubblica Democratica del Congo c. Belgio, è molto significativo. La Corte dell’Aia poneva in evidenza che le misure che evocano il timore di essere arrestati, anche se di fatto non interferivano, infatti, con il pieno adempimento delle attività diplomatiche, andrebbero contro la garanzia dell’inviolabilità personale in virtù dell’articolo 29. L’ordine dell’Alta Corte indiana di inibire all’ambasciatore italiano di allontanarsi dal territorio, vietando l’espatrio, in palese violazione del diritto internazionale consuetudinario e della Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, e l’allerta a tutti gli aeroporti di far in modo che il diplomatico italiano salga a bordo di qualsiasi compagnia aerea, vanno contro le garanzie sulla inviolabilità ed immunità diplomatica sancite nella Convenzione di Vienna del 1961.
 Gestire la struttura dell’Istituto dell’immunità diplomatica costituisce un gravoso compito al principio che gli agenti diplomatici, che operano negli Stati stranieri, non possono essere considerati personalmente responsabili delle azioni dei loro governi che rappresentano. L’articolo 31, infatti, paragrafo 1, determina che l’agente diplomatico gode dell’immunità dalla giurisdizione civile e penale. Qui, a parere di chi scrive, viene delineato il concetto d’immunità diplomatico-giurisdizionale, nel senso che sia d’uopo contrapporlo a concetti che possono sembrare simili, ma che da esso si differenziano. L’immunità diplomatica viene considerato quale trattamento particolare che il diritto internazionale – ed anche quello diplomatico – impone a ciascuna entità statale, che costituisce la comunità internazionale, di rendere operativo a favore di quei soggetti privati che sono investiti della titolarità di agenti diplomatici stranieri, e che gli ordinamenti interni di ogni Stato prevedono con proprie norme di diritto processuale. Tali norme rappresentano, dunque, un’eccezione al principio generale della sottoposizione alla giurisdizione locale dei soggetti che vi risiedono nel territorio dello Stato. Si può sottolineare che l’immunità penale, come pure quella civile, di cui gode l’ambasciatore italiano, sia personalmente che in qualità di agente diplomatico, è assoluta. Esistono due eccezioni alla sua immunità civile ma non hanno alcuna applicazione in questo caso. In pratica, gli agenti diplomatici possono, letteralmente parlando, lasciare il territorio anche se avessero l’accusa di omicidio o che l’abbiano consumato, a meno che non vi sia la rinuncia all’immunità diplomatica.
 L’Alta Corte, nell’udienza del 18 marzo, nettamente non ha contestato la posizione del diplomatico, sebbene in normali circostanze l’ambasciatore italiano avesse l’immunità diplomatica. Tuttavia, l’Alta Corte indiana pare che stia seriamente considerando che il diplomatico italiano abbia rinunciato alla sua immunità diplomatica, che si basano su due atti dell’ambasciatore italiano. Hanno citato, in primis,  la ragione che la dichiarazione scritta presentata sul comportamento dei due Fucilieri della Marina militare italiana veniva archiviata dall’ambasciatore Daniele Mancini e, secondariamente, e hanno fatto riferimento anche all’affidavit, depositato dal diplomatico italiano, assicurando l’Alta Corte che i due marò avrebbero fatto rientro in India per essere processati. Tuttavia, nessuno di questi due atti sia sufficiente a determinare la rinuncia all’immunità. La Convenzione di Vienna del 1961 riconosce la possibilità di rinuncia dell’immunità, in virtù dell’articolo 32. Tuttavia, ai sensi della presente disposizione, sull’immunità, è d’uopo che sia lo Stato d’invio a presentare espressamente la revoca e non c’è alcuna possibilità di dedurre una perdita di fatto dell’immunità in base agli atti del proprio rappresentante diplomatico. È evidente che le autorità italiane non hanno mai inviato alcun espresso segnale di voler rimuovere la immunità diplomatica al proprio ambasciatore.
 L’argomento è stato anche sollevato onde questa posizione sulla revoca è stata modificata dalla legislatura parlamentare introdotta per l’entrata in vigore della Convenzione di Vienna del 1961 sulle Relazioni Diplomatiche. Tale affermazione va considerata veritiera nella misura in cui l’Act (nel senso di legge) del 1972 ammette o, meglio, riconosce che,  in concerto con lo Stato d’invio, il Capo missione può anche rinunciare all’immunità diplomatica che gli è garantita. Tuttavia, ciò che la legge del 1972 non pone in chiaro è il requisito che deve esserci una rinuncia espressa della immunità diplomatica. Tanto è vero che non vi è stata tale rinuncia o revoca sia da parte delle autorità governative italiane che dell’ambasciatore Daniele Mancini.
 La presentazione di una domanda scritta, mercé il Capo missione italiano sul comportamento dei due marò, non può essere considerata come una specie di revoca o rinuncia dell’immunità diplomatica. In tutti i procedimenti fatti sinora, è stata la posizione italiana ad avere la meglio, visto che l’India non ha giurisdizione territoriale per provare la responsabilità dei marò con l’affermazione che i marò sono protetti dall’immunità funzionale. Ciò porterebbe ad assurde conseguenze, se il punto dibattuto sulla partecipazione di porre in discussione la giurisdizione venga interpretato come rinuncia o revoca dell’immunità diplomatica. Allo stesso modo, venendo meno alla garanzia data all’Alta Corte indiana nell’affidavit, non può essere la base per avviare un procedimento nei confronti del diplomatico italiano per aver mancato ad un impegno giurato e sottoscritto; in un certo senso, l’ambasciatore è stato accusato anche di vilipendio alla Corte.  Presentare tale dichiarazione giurata non soddisfa il requisito di un mero esplicito o di una espressa rinuncia, in virtù dell’articolo 32 paragrafo 2 della Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche del 1961. La logica della rinuncia da parte dello Stato di invio o, in ogni modo, mercé l’espressa autorizzazione di esso, da un lato, si poggia sulla ragione che il fine inerente i privilegi e le immunità non è quello di favorire i soggetti ovvero gli individui, ma di garantire l’efficace svolgimento delle funzioni delle missioni diplomatiche in quanto rappresentanti gli Stati, e dall’altro, che il beneficiario dei privilegi e dell’immunità non può rinunciare ad un diritto di cui non è titolare. Se la rinuncia concerne il Capo missione – in tal caso l’ambasciatore italiano accreditato presso lo Stato indiano – dovrà provvedervi il Ministero degli Esteri; in tutti gli altri casi è possibile considerare che la rinuncia possa essere effettuata dall’ambasciatore, sebbene rappresentante del governo ed ex officio a ciò delegato dallo stesso Dicastero degli Esteri che lo ha inviato in India. Si è detto che la rinuncia deve essere sempre espressa, nel senso che non può presumersi che possa essere data sotto forma tacita per la ragione che tale possibilità non è stata accolta durante la conferenza di Vienna. In sostanza, si dispone che la rinuncia all’immunità diplomatica deve emanare dallo Stato d’invio ed essere sempre in forma espressa. È importante sottolineare che l’ordine partito dall’Alta Corte di revocare l’immunità all’ambasciatore italiano è fortemente in contrasto con la norma de quo, inserita nella Convenzione di Vienna del 1961, giacché avrebbe ricollegato al semplice comportamento del diplomatico italiano il valore di una rinuncia implicita alla stessa immunità diplomatica. In sostanza, la rinuncia dell’agente diplomatico deve essere espressamente autorizzata dal proprio governo. Tanti Tribunali di altri Paesi hanno asserito che un impegno assunto da un agente diplomatico in un processo non equivarrebbe ad una espressa rinuncia dell’immunità nei processi di vilipendio od oltraggio alla Corte che sia iniziato.
 Tuttavia, in base all’articolo 32 paragrafo 3 della Convenzione di Vienna del 1961, l’immunità non può essere invocata da un agente diplomatico nel momento in cui la domanda riconvenzionale sia connessa con la domanda principale. Per rendere tale eccezione all’applicabile immunità diplomatica in questo caso, qualsiasi potenziale sprezzo di ricorso giurisdizionale contro l’ambasciatore italiano dovrà essere visto come riconvenzionale nella dichiarazione scritta depositata sul comportamento dei due Fucilieri della Marina militare italiana. Pertanto, la legge inerente l’oltraggio alla Corte non consente tale lettura.
 L’articolo 129 della carta costituzionale indiana autorizza l’Alta Corte a punire per offesa alla stessa istituzione giudiziaria. È stato asserito che questa disposizione costituzionale deve preva-lere sull’immunità diplomatica, come viene enunciato nella sezione n.°2 della legge sulle relazioni diplomatiche che rammenta l’effetto prevalente della Convenzione di Vienna su ogni altra norma che escluda la costituzione indiana. Nel frattempo che l’Alta Corte indiana è ancora al lavoro per dare dei chiarimenti in merito al problema poc’anzi evidenziato, gli Stati Uniti d’America l’hanno già affrontato e data la risoluzione. In una causa in cui l’aiuto domestico di un agente diplomatico del Bangladesh ha cercato di far valere un proprio diritto contro la schiavitù, attenendosi al XIII emendamento, la Corte distrettuale di New York, nella causa Ashik Ahmed vs. AHM Sadiqul Hoque ha seguito quanto è stato determinato dalla Corte Suprema statunitense nel ritenere che il reclamo ovvero il ricorso costituzionale non ha alcuna prevalenza sulla norma internazionalmente riconosciuta come l’immunità diplomatica. La Corte distrettuale statunitense ha ritenuto che era divenuta dottrina non solo mercé un decreto del Congresso, ma dagli obblighi contenuti nel Trattato internazionale, accolto dal potere esecutivo con l’assenso del Congresso.
 Non si dimentichi che l’India – in tal caso il governo – è stata firmataria della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 attraverso i poteri che le vengono indicati nella Costituzione, che ha, successivamente, accolto nel proprio ordinamento interno, secondo la procedura prevista dalla loro Costituzione.
 Ovviamente, i comportamenti delle autorità italiane hanno dimostrato una ferma volontà di indifferenza assoluta davanti agli occhi dell’Alta Corte indiana e sono stati considerati una vera e propria violazione della buona fede e del protocollo diplomatico. Tuttavia, nulla di tutto ciò dà, sia al Governo che all’Alta Corte dell’India, la possibilità di ricorrere o, meglio, di adottare provvedimenti di restrizione al Capo missione italiano. Questa vicenda va risolta direttamente a livello politico. Si può aggiungere che le autorità indiane stiano mettendo in pericolo l’Istituto della immunità diplomatica, facendo prevalere il loro ordinamento interno su quello internazionale.

25 Marzo 2013

Dr. Giuseppe Paccione                                                                                  
Dottore in Scienze Politiche
Esperto di diritto internazionale
Diritto dell’UE e Diritto Diplomatico-Consolare 
                 
 
 

 

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