Dove non arrivano le portaerei, arrivano i
semiconduttori. Una piccola isola armata
di wafer e intelligenza artificiale affronta
il colosso cinese, nel silenzio assordante
della guerra ibrida.
Nel teatro dell’assurdo che chiamiamo “politica internazionale”, ci sono attori che recitano in
costume d’epoca e altri che, in jeans e t-shirt, riscrivono il copione mentre lo recitano.
Poi c’è Taiwan. Un’isola grande quanto Lombardia e Piemonte messi insieme, con
meno abitanti dell’intera area metropolitana di Tokyo, ma che regge sulle sue spalle
una fetta enorme dell’economia globale. E come lo fa? Semplice: costruendo i cervelli
delle nostre macchine, i cuori dei nostri smartphone, le sinapsi dei missili intelligenti. Altro
che portaerei.
La guerra ibrida — quel meraviglioso ossimoro che suona come “dieta fritta” — è ormai
la nuova normalità. È fatta di droni invisibili, blackout con tempismo sospetto, hashtag
virali che destabilizzano governi, incendi strategici in Festival internazionali, e sabotaggi
marini più adatti a romanzi di Le Carré che a notiziari serali. Ma nel centro di questo caos
elegante, c’è un punto fermo: Taiwan. La piccola isola è la chiave di volta dell’equilibrio
mondiale. E non per la sua forza militare (pur crescente), ma per quella tecnologica.
La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), che non ha neanche bisogno
di cambiare nome per diventare acronimo da romanzo cyberpunk, produce oltre il 90%
dei chip avanzati sotto i 7 nanometri. Detto in parole povere: se domani TSMC smette di f
unzionare, Apple piange, Nvidia sviene, e i centri di comando dell’intero arsenale NATO
diventano scatole nere vintage.
La Cina lo sa. E mentre sfoggia la sua armata di TikTok, dispiega flotte, e rivendica sovranità
storiche con l’energia di un revisore dell’ufficio catastale, non osa (ancora) invadere
Taiwan. Perché, e qui arriva il capolavoro di ironia geopolitica, il futuro della Cina — digitale,
produttivo, industriale — è saldamente legato a quei minuscoli chip prodotti dai “ribelli” taiwanesi.
Tagliare quei rifornimenti significherebbe strangolare non l’Occidente, ma se stessi.
E quindi? E quindi benvenuti nel nuovo volto della guerra: uno scontro senza spari ma con
blackout strategici, sabotaggi di cavi sottomarini, attacchi anonimi alle infrastrutture e guerre
psicologiche via social. Una guerra dove l’obiettivo non è più la conquista del territorio, ma
della percezione. Del tempo di reazione. Dell’algoritmo giusto.
Gli eventi di Cannes e Nizza, con blackout che sembrano sceneggiati da Netflix più
che indagati da Europol, sono solo la punta dell’iceberg. Dietro ogni scintilla sospetta,
si cela un potenziale test bellico, una provocazione a bassa intensità pensata per
misurare la resilienza dell’Occidente. Una guerra dove non si alzano bandiere,
ma si toglie la corrente. Dove non si occupano città, maflussi di dati.
E mentre Russia e Cina giocano a Risiko subacqueo con le infrastrutture energetiche
e digitali d’Europa, Taiwan continua a fare quello che sa fare meglio: produrre microchip
e diventare l’ago della bilancia tra mondo libero e autocrazie digitali. Non male,
per un’isola che molti non saprebbero collocare su una cartina muta.
Sì, Taiwan può tenere a bada la Cina. Non con cannoni, ma con wafer. Non con eserciti,
ma con architetture a 3 nanometri. E l’Occidente farebbe bene a proteggere questo
scudo invisibile, che brilla al silicio invece che all’acciaio.
Conclusione?
La prossima guerra mondiale potrebbe iniziare non con un bombardamento, ma con
un’interruzione nella catena di fornitura dei semiconduttori. Il bottone rosso sarà
probabilmente touch screen. E chi comanda la fabbrica, comanda il mondo.
E voi, avete aggiornato il vostro firmware oggi?
G.& G. ARNÒ