Il tracollo del governo Johnson |
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Venerdì 08 Luglio 2022 08:14 |
8 LUGLIO 2022 A un primo occhio, le ragioni della caduta di Boris Johnson da leader del Partito Conservatore e, di conseguenza, da premier britannico sono trasparenti: i Tory hanno sfiduciato un premier ritenuto non più credibile e sostenibile per i numerosi scheletri nell’armadio e scandali che ne hanno accompagnato la leadership. Spiegazione diretta ma, in un certo senso, semplificatrice: la resa dei conti in casa Tory è stata sicuramente accelerata dalla disinvoltura con cui Johnson ha trattato in primo luogo la violazione delle regole anti-Covid del suo spin doctor Dominic Cummings, in secondo luogo il discusso Partygate e infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso, lo scandalo sulle molestie del braccio destro Chris Pincher. Ma non sono stati gli scandali la causa ultima della fine dell’esecutivo dell’ex sindaco di Londra. La spaccatura nel Partito ConservatoreA suo modo Johnson cade perché il Partito Conservatore applica nei suoi confronti le regole che nel 2019 gli hanno permesso di scalare l’esecutivo disarcionando Theresa May: utilizzare le ragioni della popolarità come arma politica per ribaltare il sistema. Ma la fine del suo esecutivo conferma, come già i fatti del 2019 e l’incapacità della May di concludere la Brexit avevano anticipato, che nel Regno Unito il partito che da dodici anni regge le sorti del governo è sotto stress e spaccato tra due anime politiche di riferimento molto diverse. Johnson nel suo discorso di dimissioni ha, nella giornata del 7 luglio, accusato apertamente il “gregge” dei parlamentari conservatori che a suo avviso ha tradito la volontà popolare. Dal 2016 l’ex sindaco di Londra, architetto della campagna conservatrice per la Brexit, ha fatto del legame diretto con gli elettori un punto di forza. Il classicista, etoniano e snob Johnson si è riscoperto interprete dei sogni e delle ambizioni di riscossa dell’Inghilterra profonda che, in un ultimo anelito imperiale, aveva votato a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Trascinando con sé tutto il Regno, nonostante il voto contrario della capitale Londra, delle metropoli inglesi (Liverpool, Manchester, Birmingham, Leeds e via dicendo) e di Irlanda del Nord e cozia, ampiamente favorevoli al Remain. Nel 2019 Johnson ha sfidato l’opposizione di chiunque, anche in casa conservatrice, si opponesse al perfezionamento di questo processo: ancora a settembre 2019, tre mesi prima del trionfo elettorale di dicembre, grandi esponenti dei Conservatori come gli ex Cancellieri dello Scacchiere Philip Hammond e Ken Clarke, assieme a ex ministri di peso come Oliver Letwin avevano provato a bloccare il “ciclone” Johnson in nome dell’ostacolo alla Brexit e della normalizzazione del partito. Johnson prometteva un’inversione delle politiche di austerità finanziaria e liberalizzazione massiccia che i governi di David Cameron e Theresa May avevano promosso; al rilancio di Londra come “nave pirata” finanziaria sommava piani per la nazionalizzazione delle ferrovie, il rilancio degli investimenti strategici, il potenziamento dei fondi alle periferie. Completavano un’agenda ambiziosa l’unione tra lo slogan “Get Brexit Done!” e una politica estera assertiva, fatta di strategie di ampio respiro (Global Britain) e discorsi sul ritrovamento della potenza perduta. Lo spartiacque del 2019 pesa ancoraIl voto del dicembre 2019 è stato uno spartiacque importante per il Regno Unito. Il Partito Laburista è stato travolto proprio per la sua ambiguità sulla Brexit. I Tory hanno stravinto sfondando, nel Nord dell’Inghilterra, in diversi distretti in cui la Brexit aveva vinto ampiamente e che costituivano il tradizionale “Muro Rosso” operaio. Quelli che avevamo definito gli “eroi di Ken Loach”, i minatori e gli operai delle città de-industrializzate durante i governi conservatori di Margareth Thathcer, dimenticati dai laburisti di Tony Blair durante il rampante abbraccio tra Londra e la globalizzazione e trascurati a lungo da una classe dirigente centrata sulla capitale, hanno premiato l’agenda dell’ex sindaco di Londra. “Voglio dire ai milioni di persone che hanno votato per noi nel 2019, molti dei quali hanno votato conservatore per la prima volta”, ha affermato Johnson nel suo discorso di dimissioni, “grazie per quell’incredibile mandato, la più grande maggioranza conservatrice dal 1987, la più grande quota di voti dal 1979″. Una maggioranza del genere non sarebbe stata conquistabile senza Johnson e ora, paradossalmente, è a rischio nonostante con l’ascesa di Keir Starmer al posto di Jeremy Corbyn il Labor si sia ancora di più allontanato dalla classe sociale di riferimento. Ma a molti Conservatori la svolta del partito, in fin dei conti, stava stretta: anche gli stessi Rishi Sunak e Savid Javid, johnsoniani e Brexiters convinti, non hanno mai condiviso gli aneliti trasversali del premier. Chi può condividerli è Nadim Zahawi, neo-Cancelliere dello Scacchiere decisivo per le dimissioni di BoJo , ritenuto un vero self-made man e nato da una famiglia umile, profuga dall’Iraq di Saddam Hussein. Il discorso tradizionale dei conservatori, insomma, potrebbe riprendere piede se figure come Sunak o Javid scalassero il Partito svestendo l’abito “populista” già messo in formalina da tempo (le uscite di Sunak sull’impossibilità di contenere tutti gli effetti sociali dell’inflazione lo testimoniano). Ma pensare di governare un Paese spaccato e a rischio recessione con la ricetta “meno Stato, meno tasse, meno burocrazia” della destra liberista tradizionale è una pia illusione. E viene un dubbio: dodici anni di governo consecutivi non stanno logorando eccessivamente i Tory? Il potere logora chi ce l’haNel Regno Unito la tendenza politica vede i primi ministri messi in minoranza o al tappeto più dalle fronde interne che da veri e propri incidenti istituzionali. Nel 1990 Margareth Thatcher fu scalzata dal Partito Conservatore dalla premiership e nel 2007 la stessa sorte toccò a Tony Blair in casa Laburista; nel 2015, a suo modo, David Cameron ci mise del suo convocando il referendum sulla Brexit per inseguire l’obiettivo di breve periodo di capitalizzare i voti travasati dai Conservatori dello Uk Independence Party, creando al suo interno la fronda che avrebbe portato al risultato storico del 23 giugno 2016. In tutti i casi abbiamo un’anticipazione di ciò che oggi succede con Johnson: leader saldamente in testa al governo e al proprio partito, imbattuti alle urne (tre vittorie per Thatcher e Blair, due per Cameron) e al potere per un consolidato mandato che vengono estromessi da incidenti politici, faide di partito o questioni sostanzialmente interne. Il sistema bipolare inglese, sul medio-lungo periodo, inverte il motto di Giulio Andreotti secondo cui “il potere logora chi non ce l’ha”. Ed è fisiologico, come ha ricordato il giornalista Gabriele Carrer, che alla lunga una stanchezza e diverse fragilità strutturali insorgano. Del resto il Partito Conservatore sbagliò la carta della successione alla Thatcher candidando John Major, che nel 1997 fu sonoramente sconfitto da Blair, che pose fine a diciotto anni consecutivi di governo Tory. Dopo tredici anni di egemonia, il New Labor blairiano è uscito battuto alle elezioni del 2010 e 2015 e dopo la virata a sinistra di Corbyn ha “non vinto” nel 2017 ed è stato travolto nel 2019. I Conservatori possono arrivare, tirando la fine della legislatura, a quattordici anni di governo consecutivo nel 2024 ma dopo Johnson potrebbero avere il loro quarto premier al termine di un periodo in cui i vertici del Paese sono sempre stati ricambiati con un processo interno alla destra d’Oltre Manica. Johnson ha alle spalle un solo successo elettorale da leader, ma tra i più fragorosi del secondo dopoguerra. Ha redistribuito le carte in tavola, ha rianimato temporaneamente un Partito Conservatore che in nove anni prima della sua ascesa aveva dovuto gestire la Grande Recessione, le crisi geopolitiche mediorientali, la Brexit e in seguito al governo ha avuto in mano la risposta al Covid-19 e all’invasione russa dell’Ucraina. Ha dichiarato di aver vinto, con i vaccini, la guerra al Covid. Dimenticandosi forse che nel Regno Unito chi vince le guerre non è mai un premier destinato a durare. I casi di Lloyd George e, soprattutto, Winston Churchill insegnano. In ultima istanza, ha prolungato una permanenza al potere del partito “perno” del sistema politico di Sua Maestà nel nuovo millennio senza risolverne le divisioni interne e strutturali. Risultando, in ultima istanza, vittima dello stesso processo che prima di lui hanno conosciuto Thatcher, Blair, Cameron e, da ultima, la sfortunata Theresa May. In un ciclo di corsi e ricorsi che, se non altro, mostra la resistenza e l’invulnerabilità della democrazia britannica ai grandi passaggi politici e storici della nostra era. Un esempio difficilmente replicabile in altre parti del mondo occidentale. |
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