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Venerdì, 26 Aprile 2024
Interventi in aula dei senatori Napolitano e Zavoli PDF Stampa E-mail
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Notizie - Brasile
Lunedì 30 Ottobre 2017 09:54
Legislatura 17ª - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 905 del 25/10/2017 
 
*NAPOLITANO (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE). Signor Presidente, la ringrazio in modo particolare per aver voluto considerare le mie difficoltà personali, consentendomi di prendere la parola da seduto a questo banco.
Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, il così controverso iter della nuova legge elettorale ha portato in primo piano esigenze e ragioni non facilmente componibili tra loro, da considerare tuttavia non solo in riferimento ad una pur rilevante, drammatica contingenza come quella di cui parliamo.
Da un lato è emersa con forza un'esigenza da tempo presente nell'esperienza e nell'evoluzione della vita pubblica, non soltanto in Italia: parlo della capacità di decisione del sistema democratico di fronte a cambiamenti epocali che richiedono risposte tempestive e incisive da parte delle leadership di Governo. È una questione che si acuisce quando si tratti di approvare provvedimenti volti a risolvere problemi d'innovazione e cambiamento da troppo tempo sterilmente dibattuti e rimasti irrisolti.
Dall'altro lato - e qui ho ritenuto e ritengo di dover porre un mio personale forte accento - emergono le ragioni dell'equilibrio tra le istituzioni, i poteri e i ruoli propri di ciascuna di esse nell'ambito dei singoli ordinamenti costituzionali e in coerenza con l'assetto europeo. Vorrei che almeno nel prossimo futuro, in diverse condizioni, si potesse tra le forze politiche in seno al Parlamento discutere di tali questioni come questioni di interesse generale e di comune responsabilità politico-istituzionale.
Ma si può far valere l'indubbia esigenza di una capacità di decisione rapida da parte del Parlamento fino a comprimerne drasticamente ruolo e diritti, sia della istituzione, sia dei singoli deputati e senatori? L'interrogativo è sorto in concreto nelle ultime settimane con la decisione del Governo di apporre la fiducia sulle parti sostanziali del testo, prima che si aprisse in Aula alla Camera il confronto sugli emendamenti all'articolo 1. Ma mi domando, al di là delle opposte posizioni espresse notoriamente a quel proposito dalle forze politico-parlamentari: esiste o no un dilemma di carattere generale da discutere insieme e in prospettiva? Il dilemma non è fiducia o non fiducia, anche perché non è mai stata affrontata neppure dinanzi alla Corte costituzionale un'obiezione di incostituzionalità della fiducia. C'è però stato nell'esperienza italiana ricorso alla fiducia in occasioni e in modalità molto diverse tra loro.
Quali forzature può implicare e produrre il ricorso a una fiducia che sancisca la totale inemendabilità di una proposta di legge estremamente impegnativa e delicata? È questo il punto che ho sollevato con le riserve e posizioni espresse nella vicenda concreta che si sta concludendo in sede parlamentare. È questo che mi premeva, assai più che auspicare una specifica modifica al testo. In effetti, l'auspicio da parte mia era che si eliminasse l'ultima sopravvivenza della legge Calderoli, promulgata nel 2005. Quell'auspicio non partiva da presunzioni di incostituzionalità della clausola relativa all'indicazione, in sede di procedimento elettorale, dei nomi del capo della forza politica e soprattutto del capo della coalizione. Quell'auspicio partiva dall'esperienza da me fatta, come Presidente della Repubblica, degli equivoci che di lì erano scaturiti sul piano degli equilibri costituzionali, adombrando un'elezione diretta del Presidente del Consiglio. Il punto critico era dunque ai miei occhi quello - ripeto - della totale inemendabilità della proposta di nuova legge elettorale.
Ora, sia chiaro - non dovrebbe essere necessario ricordarlo - che nessuno più di me poteva auspicare, all'unisono con il presidente Mattarella, l'approvazione più largamente condivisa dal Parlamento di una nuova legge elettorale. Questa per circostanze ben note era diventata urgente, anche se dovremmo essere consapevoli dell'anomalia di troppi, frequenti cambiamenti in Italia di una disciplina, come quella elettorale, che dovrebbe essere (ed è generalmente in Europa) costante per un lungo periodo e non essere modificata alla vigilia di elezioni politiche generali. Siamo sicuri che quella ora in votazione possa reggere a lungo, che abbia un fondamento sufficientemente solido da proiettarsi in un orizzonte di ragionevole durata?
Ben prima di essere eletto Presidente e poi nell'esercizio del mio mandato, avevo sollecitato e poi assunto come obbiettivo fondamentale nell'interesse del Paese l'adozione sia di una nuova legge elettorale, sia della riforma della seconda parte della Costituzione, ma mi trovai dinanzi a un nulla di fatto in tutta la legislatura 2008-2013, nonostante la formale condivisione di quegli obbiettivi da parte di partiti di entrambi gli schieramenti e a dispetto di promesse da essi fatte e non mantenute.
Nel merito, ho apprezzato la scelta di fondare la nuova legge elettorale su un mix di proporzionale e maggioritario, nella scia della legge Mattarella del 1993, dalla quale però sarebbe stato coerente mutuare anche la netta distinzione tra le candidature nei collegi e quelle nelle liste dei partiti (Applausi dai Gruppi Art.1-MDP e Misto-SI-SEL), davvero non un semplice tecnicismo, come si è detto.
Infine, singolare e sommamente improprio ho trovato il far pesare sul Presidente del Consiglio la responsabilità di una fiducia che garantisse la intangibilità della proposta in quanto condivisa da un gran numero di partiti. Il presidente Gentiloni Silveri, sottoposto a forti pressioni, ha dovuto aderire - e me ne rammarico - a quella convergente richiesta, proveniente peraltro da quanti avrebbero potuto chiedere il ricorso alla fiducia non già su tutte le parti sostanziali della legge, ma su punti considerati determinanti, che non ebbero la lucidità e il coraggio di fare. In definitiva, ho compreso la difficoltà in cui si è trovato un Presidente del Consiglio che ho stimato e stimo per il modo in cui ha guidato e guida il Paese, rafforzando la posizione dell'Italia come interlocutore valido sul piano europeo e internazionale.
Altro tema che si è presentato in rapporto a questa vicenda e resta, onorevoli colleghi, per tutti noi da meditare è quello del come contrastare forme di ostruzionismo dilatorio o paralizzante in Parlamento. Il tema è stato oggetto di una lunga storia in Italia, a partire da efficaci interventi già negli anni della presidenza Iotti alla Camera. In verità, su quella strada si sarebbe potuti andare più avanti, se non fossero ad esempio rimasti sempre nel cassetto progetti di riforma dei Regolamenti parlamentari. (Applausi dal Gruppo Art.1-MDP e del senatore Buemi). Detto ciò, è corretto sostenere che oggi una linea antiostruzionistica può affidarsi solo a mezzi estremi come il vanificare ogni ricorso all'istituto del voto segreto e il negare ogni libero confronto emendativo? E ciò a prezzo di qualunque costrizione di diritti e di ruolo del Parlamento e dei singoli parlamentari?
Converrebbe, onorevoli colleghi, pensarci bene tutti. Si sa qual è stata la mia identificazione, potrei dire per un'intera vita, con la causa del fondamento parlamentare nella nostra democrazia costituzionale. Ma è stata per me essenziale e tale resta la necessità in pari tempo di misure e comportamenti miranti a una maggiore funzionalità, efficienza e produttività nello svolgimento dei lavori parlamentari, anche attraverso lo sveltimento e la prevedibilità dei tempi dell'esame di ogni provvedimento nelle Camere, senza che il Parlamento stesso esorbiti peraltro dalle sue funzioni. Tutto questo è essenziale anche per contrastare i rigurgiti di una campagna antiparlamentaristica che conta tristi precedenti storici in Italia.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, al punto in cui siamo occorre guardare avanti, innanzitutto alla necessità di salvaguardare due beni vitali per l'Italia: la stabilità di Governo e lo sviluppo di una
funzione assertiva e costruttiva del nostro Paese nel processo di integrazione e unità dell'Europa, cui è legato fondamentalmente il nostro comune destino. Più in generale, vorrei richiamare il modo in cui, nell'estate 2011, cercai di trarre le principali lezioni dall'esperienza del centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Lo feci parlando a una vasta assemblea di giovani, nel contesto indipendente del meeting di Rimini. Mi impegnai lì in un discorso di ampia prospettiva, oltre i tradizionali steccati politici: occorre mirare, dissi, a un grande sforzo collettivo - nato da un comune esame di coscienza - come quello da cui scaturì, dopo la liberazione dal nazifascismo, la ricostruzione democratica, materiale e morale del nostro Paese, cui - voglio ricordarlo - si accompagnò la salvaguardia dell'unità nazionale, messa in questione da impulsi separatisti e da pressioni dei Paesi confinanti. Ancora adesso è la stessa drammaticità delle sfide - aggiunsi - del nostro tempo a rappresentare la molla per procedere in quella direzione. Si richiede però più obbiettività nelle analisi e nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. C'è - diciamolo chiaramente - da risalire la china della sedimentazione in questi decenni, nella sfera della politica, di chiusure, di faziosità, di derive verso meri scontri di potere e anche di personalismi dilaganti come non mai in seno a ogni parte.
La prospettiva - ribadisco oggi - non può essere che una: un nuovo senso di comune responsabilità, al di là delle alterne vicende della competizione politico-democratica e quindi della collocazione, in ciascun periodo, dei singoli partiti in maggioranza o all'opposizione. Solo così possiamo fare i conti con la vera e propria crisi di sistema che stiamo vivendo in Italia e altrove. Come ha di recente scritto uno dei nostri maggiori studiosi e analisti dei fondamenti e dei percorsi della politica, ci dibattiamo in quello che è perfino in qualche modo un "nuovo caos", di fronte a fenomeni come il prevalere delle "particolarità dei sentimenti e delle passioni", di psicosi, di allarme e paura e di istinti di autodifesa: quasi che - secondo le parole dello studioso - "la democrazia stesse perdendo la ragione", perdendo così irrimediabilmente se stessa.
Dunque è il momento, io ritengo e vorrei che su ciò consentissimo, di sollevare lo sguardo dallo scontro quotidiano, dalle sue angustie e dalle sue nevrosi di "fine legislatura". In questo spirito preannuncio, con tutte le problematicità e le riserve che ho cercato di motivare, la fiducia al Governo Gentiloni Silveri per salvaguardare il valore della stabilità, per consentire, anche in questo scorcio di legislatura, continuità nell'azione per le riforme e per una più coerente integrazione europea. Mi pronuncio per la fiducia (Applausi ironici dei senatori Giarrusso e Lezzi) per sostenere le scelte del Presidente del Consiglio fondate sulle prerogative attribuitegli dalla Costituzione e dalle leggi. Grazie per l'attenzione.
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*ZAVOLI (PD). Signor Presidente, mi ha colpito che una rappresentante del Movimento 5 Stelle, credo dopo aver esaurito una serie di più significative curiosità, abbia pensato di chiedermi pubblicamente come la pensassi a proposito della grave questione che stiamo dibattendo.
Prenderei le mosse dall'intervento di ieri del collega illustre che ha dato il via anche a qualche divagazione solo apparentemente accessoria, non foss'altro perché è stata raccolta dai giornali con l'intenzione di collegare fenomeni, eventi, esperienze lontane a qualcosa che ha la qualità per resistere alle cose che noi stiamo dibattendo in questi giorni, per la verità con la difficoltà di trovare una sorta di memoria dei modi di rappresentare le idee, trambusti e passioni collegabili al valore di questa nostra discussione.
Credo e spero di essere tra i senatori che ieri hanno approfondito il discorso del senatore Mario Tronti, riflettendo sull'accorato e nondimeno lucido bisogno del nostro illustre collega di risvegliare qualcosa di sé stesso, che in una certa misura ritrova vaghe assonanze nelle questioni sulle quali ci troviamo
impelagati da qualche tempo. Mi riferisco all'incipit apparentemente inopinato di un intervento che partiva dalle ragioni della sua antica passione politica e ideale. È per lo stesso motivo che oggi, convertito dalla contemporaneità di scenari abissalmente tra loro lontani, il filosofo si dedica a manifestare le sue idee sulla politica in una maniera non distante, né rinnegatoria, di cose vissute nella sua vita più giovane, quando pareva che si stesse misurando il destino dell'umanità attraverso un evento politico che aveva finito per diventare universale, tant'è che lasciava i segni del suo manifestarsi, sia pure in forme molto diverse in tante parti del pianeta.
Quello del senatore Tronti, per la verità, mi è sembrato più che un discorso una sorta di confessione laica. Attraversava l'esigenza immutata nel tempo di dedicare la sua vita pubblica al valore di un'origine morale mai del tutto sgominata dalle fatali correzioni della storia, cominciando a dedicare una vocazione colma di una sorta - passatemi l'espressione - di redenzione razionale che lo accompagnasse nel seguito di una laboriosa attitudine al rispetto dell'errore, cui la storia, ma anche la filosofia riserva il più drastico rispetto, per dire, che è reale solo il razionale. Ecco la lezione non pronunciata dal senatore Tronti, se non per riconoscere che l'idea dell'errore, nella nostra fugace storia quotidiana, deve indurci a conservare quella ricchezza generale che è il dubbio, cioè l'intelligenza del confronto, del contrasto, della distinzione, i tre segni del procedere critico del pensiero, a garanzia che non prevalgano le ragioni solo oppositive. E qui mi tengo alla coraggiosa e penetrante saggezza di Giorgio Napolitano. Il suo invitare di poco fa, ascoltato nel più fermo silenzio, a ritrovare il valore indicibile della comunità, con le riserve democratiche, insieme, della condivisione e dell'opposizione. La sua era una vitale saggezza civile, coltivata nella cultura della diversità e del dibattito, cioè alle premesse e allo stigma della libertà.
Ho improvvisato qualche appunto, perché mi sono sentito in obbligo di dare una risposta alla collega che, forse, ha chiesto di conoscere anche il parere di un signore di novantaquattro anni che ha sempre privilegiato la politica del dialogo. Confesso di aver una attitudine particolare per la questione del dubbio. Anche le persone più riottose, meno inclini alla dialettica della verità, contengono in sé, magari non percependone il significato, l'istinto di porsi un problema sapendo che tutto può essere o diventare diversa. Il cambiamento non è più la sua complessità, ma la sua velocità. E dovremmo risolvere le nostre questioni non abbandonandoci alla frettolosità, alla sommarietà, alla negligenza e all'egoismo, anziché dedicarvi l'attenzione, l'impegno e la tensione anche morale ed etica che meriterebbero, trattandosi di problemi come quelli che abbiamo trattato fino a oggi, quasi non fossimo più tenuti a rispettare la necessità di vivere con gli altri, di rappresentare una civiltà che si muove, si giustifica e cresce soltanto in funzione di viverla insieme. Don Milani disse che «la politica è uscirne insieme»: non voleva dire una cosa generica o soltanto virtuosa voleva dire semplicemente che ciascuno di noi da sé è la metà di ciò che dovrebbe, che l'altra metà è l'altro.
Quando mi fu chiesto - scusate se mi intrattengo su un particolare personale che non ha alcun rilievo per le vostre conoscenze, ma sono portato a ripeterlo a me stesso - che cosa avrei voluto fare alla RAI, dissi che mi sarebbe piaciuto dedicarmi alle interviste. Il direttore, allora era Piccone Stella, si mostrò meravigliato e, indulgente nel sorriso con il quale accolse la mia stravaganza, non poté fare a meno di chiedermi: «Ma chi vorrebbe intervistare?» Pensava che potessi alludere a chissà quali personaggi, e mi limitai a dire: «Non lo so francamente, vorrei intervistare "chiunque"». Dovette probabilmente abbandonare la bonomia e, vinto dalla curiosità, volle sapere chi fossero gli «altri». Mi limitai a dire, forse un po' goffamente, che gli altri erano tutte le persone che incontravo, sapendo che se incontri una persona, e le parli, e questa persona scopre che ti occupi dei suoi pensieri, delle sue gioie e delle sue sconfitte, hai risvegliato, in qualche modo, una vita. Non si esce mai completamente indenni dal conoscere e capire un'altra persona, dal mettersi insieme a rivedere cose, a giudicarle e a tentare di trovare un vicolo che attraversi - perché no? - anche l'anima.
E così cominciai a fare quel lontano mestiere, che mi portava a scoprire e a tenere in vita dentro di me il rapporto, non virtuoso, né stucchevole, né solo curioso, con la realtà dell'altro. Ciò anche quando, come ieri, mi è parsa addirittura spropositata una reazione polemica, che pure avrebbe avuto un fondamento serio se avesse potuto essere interpretata con modi e tonalità diverse. Anche in questa circostanza è intervenuta la ragione del dubbio avendo via via nutrito l'idea che nessuno può dire di non aver bisogno di nessuno. L'altro è di volta in volta la tua metà.
Una idea di comunità Napolitano l'ha raccolta, parlando della complessità dell'argomento, delle sue articolazioni anche di carattere storico perché ha voluto richiamarsi a esperienze passate. C'è chi ha ritenuto di poter formulare dei rilievi che chiamavano in causa le sue coerenze, almeno in politica, ma quello di Napolitano è stato un intervento assolutamente ineccepibile secondo me. Mi sono trovato alleggerito dall'idea di dover dare una risposta alla mia collega grillina che mi chiedeva di dire quali erano i motivi per i quali io voterò la fiducia. Sono esattamente questi: interpretando il nuovo che questa operazione ancora malcerta ha prodotto, vi è tuttavia qualcosa che contribuisce a fornirci gli elementi per rivedere le nostre persuasioni; ritornava il dubbio che alcune ragioni militassero nella stessa misura, anche tra coloro con opinioni diverse.
Ciò riguarderà il senso dello stare qui, in quest'Aula, che non è affatto sorda né grigia, ma rischia di diventare così debole, così disincantata, così al di fuori della realtà. Credo invece che sia una buona ragione quella un po' pedissequa, o forse banalizzante, del non prendere sul serio tutte le cose, anche quelle che ci paiono solo strumentali.
Spero che questa circostanza servirà a ricreare un clima che deve corrispondere alla serietà e alla dignità di questo luogo, a mantenere quella credibilità che ci ha consentito di superare nella democrazia esperienze tragiche; il populismo è una dannazione, ma questa consapevolezza è un motivo in più per diventare più generosi, disponibili e attenti all'ascolto: non si esce mai indenni dall'obiezione che ci viene da un interlocutore.
Abbiamo bisogno di questa biodiversità intellettuale, morale, etica; la stessa parola «etica» aveva bisogno di rinnovarsi. Qualcosa nascerà anche dagli errori di questo momento.
Avverto però una certa stanchezza, la avverto, e credo di soffrirne come tutti voi. Ho grande stima e rispetto per il valore indicibile della costanza e della pazienza che manifesta il Presidente del Senato e mi chiedo se non vi sia un motivo molto serio per rivedere, anche in nome della serietà personale di ciascuno di noi, le questioni che ci tengono lontani, come se fossimo qui a fare una guerra, anziché cercare una pace sociale, civile, culturale. Tanto che Giorello, uno scienziato, fra l'altro non credente, parlando dell'etica ha detto che bisogna liberare questa parola da questo sentore così astratto e virtuoso. Bisogna accettare che nell'etica possano trovare voce anche le voci che contraddicono quel rigore.
C'è un gran bisogno di novità. Credo che, se decideremo di far parte di un mondo che si salva soltanto mettendosi insieme e unendo le forze, si possa ripristinare il prestigio pericolante di questa democrazia. Abbiamo ancora il tempo per mettere a posto le cose e non dovremo credere che, risolta con il voto di fiducia tale questione, essa perciò stesso sia risolta. La questione rimane in piedi, con tutto il carico del tempo perduto, delle offese gratuite e del bisogno qua e là di cercare gli spazi del populismo che hanno le istanze clamorose, le manifestazioni esasperate, che finiscono per incoraggiare le giuste ridondanze della piazza. Tanto che mi è venuto in mente Luther King, il quale ebbe il coraggio di gridare: «Io vi scongiuro di essere indignati». È una frase che mi sarebbe piaciuto sentire ieri pronunciata da qualcuno. Era un'altra storia, molto diversa, ma mi sono augurato che l'abbiano ricordata ieri un po' tutti, anche qui. 




Sen. Claudio Micheloni
Presidente CQIE - Comitato per le questioni degli italiani all'estero
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