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La battaglia di Mosul PDF Stampa E-mail
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Notizie - Mondo
Venerdì 03 Marzo 2017 18:10



Mar 3, 2017/
 30 Commenti/
 Febbraio 2017,In evidenza,Iraq,Medio Oriente /
 Fausto Biloslavo ilgiornale.it
 

Mosul Ovest – Il tiratore scelto della polizia federale irachena prende la mira con calma dal tetto di una casa nel quartiere di Giosaq a Mosul ovest. Il suo fucile di precisione è infilato in un buco nel muro di un piccolo terrazzo quadrato. Spara un colpo, poi un altro e si scatena l’inferno. I cecchini ceceni dello Stato islamico annidati ad un centinaio di metri rispondono al fuoco ed il fronte s’infiamma. I ragazzini, qualcuno sbarbatello, con la divisa blu a chiazze sono diventati veterani nell’offensiva che dura da ottobre per liberare la “capitale” del Califfo in Iraq. Mosul est è stata riconquistata, ma ad ovest, dove Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato il Califfato nella moschea di Al Nuri, le truppe jihadiste combattono fino alla morte, come le SS a Berlino. Il tenente dei corpi speciali, Ahmed Galeb, ha pochi dubbi: “Non importa quanti bastardi ci sono ancora. Abbiamo abbastanza munizioni per farli fuori tutti”.

Sul tetto maledetto di Mosul siamo appiattiti a terra cercando di filmare lo scontro, ma soprattutto di portare a casa la pelle. Uno dei poliziotti in prima linea spara sventagliate di raffiche assordanti con la mitragliatrice. Le bandiere nere rispondono al fuoco con una valanga di proiettili. Ogni tanto il boato secco di un’esplosione di un colpo di mortaio o di un razzo ci fa correre un brivido lungo la schiena perché non si capisce da dove arrivano e chi colpiscono.

La città è distrutta. Quasi ogni casa è sbrecciata dalla furia dei combattimenti. Le automobili abbandonate sono ridotte a scheletri di lamiera anneriti dalle fiamme. I quartieri della prima linea appaiono deserti. Per passare gli incroci devi scattare come un centometrista con i soldati iracheni che ti coprono sparando a raffica verso le postazioni dello Stato islamico.
 A Mosul ovest sono rimasti intrappolati 750mila civili, un terzo bambini. A ridosso del fronte si incrociano lunghe colonne di sfollati, che fuggono sventolando le bandiere bianche. Donne velate dalla testa ai piedi, che portano in braccio i figli nati da poco. Giovani, che hanno messo la nonna semi paralizzata dentro una carriola per trasportarla. Famiglie intere su un carretto tirato dal padre.

I seguaci del Califfo utilizzano la popolazione come scudo umano. In un pronto soccorso da prima linea incrociamo dei civili feriti da colpi di mortaio. Un’adolescente ha il polmone forato da una scheggia ed una bambina piange invocando la mamma. Fra i feriti c’è pure un barbuto insanguinato con dei pantaloni neri strappati, ma di tipo militare. I soldati iracheni lo guardano in cagnesco convinti che sia un miliziano dello Stato islamico, che si spaccia per civile.
 

Dell’aeroporto appena conquistato è rimasta una spianata di macerie. Le batterie delle forze irachene vomitano razzi verso Mosul ovest. A ridosso della prima linea compaiono anche gli americani dell’82esima divisione aviatrasportata a bordo dei loro enormi blindati contro le mine. Non amano farsi riprendere, ma il tenente colonnello John Hawbaker, che sembra un moderno John Wayne, parla chiaro: “Le forze irachene sono forti. Lo Stato islamico è debole ed intrappolato. Non ha via di fuga. Gli iracheni vinceranno”. Gli americani e gli alleati garantiscono un appoggio importante alla liberazione di Mosul con raid aerei, corpi speciali, artiglieria, intelligence.

Alte colonne di fumo nero degli obiettivi centrati si levano dalla parte ovest. Gli elicotteri di fabbricazione russa degli iracheni lanciano nugoli di razzi, che lasciano scie nere nel cielo con uno stridore assordante. La Stalingrado del Califfato sembra un girone dantesco.
 

Sul fronte sud ovest del quartiere di Mamoun è schierata la leggendaria Golden division, che ha subito ingenti perdite. I numeri totali dell’offensiva sono top secret, ma si parla di migliaia di caduti. Le forze antiterrorismo sono appena a 3 chilometri dalla moschea di Al Nuri, dove è stato proclamato il Califfato. “A Mosul est ci attaccavano con le macchine minate – osserva il comandante, generale Abdul Wahab Sadii – Adesso usano piccoli droni difficili da abbattere, che ci sganciano granate sulla testa. Il primo giorno ne hanno impiegati una settantina”.
 

Il blindato con i finestrini scheggiati dai proiettili dei cecchini si ferma lungo la strada spazzata dalla battaglia, che porta alla prima linea. Il cadavere di un comandante del Califfato, forse algerino, che i suoi uomini cercavano di portare via ferito, è ancora riverso su una specie di barella.

Ma le bandiere nere non mollano. Il primo colpo di mortaio piomba a 150 metri da noi con una fiammata rossastra, che solleva una nuvola di polvere. Un altro colpo si schianta con fragore ancora più vicino, come se cercasse noi giornalisti. Non ci resta che piazzarci dentro una casa occupata dai militari, a terra, lontani dalle finestre a ridosso delle pareti, mentre arrivano altre granate delle bandiere nere, che ci bloccano per due ore. La battaglia di Mosul continua.

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