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La “storia indiana” del dalmata-torinese Bruno Petris PDF Stampa E-mail
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Venerdì 09 Ottobre 2015 13:58

di Claudio Beccalossi

IL “VECCHIO ITALIANO” DELLO SRI AUROBINDO ASHRAM DI PONDICHERRY

La “storia indiana” del dalmata-torinese Bruno Petris – Le sue vicende in sintonia con Auroville, la “città ideale” ispirata al famoso guru scomparso nel 1950

Foto a lato:Bruno Petris (a sinistra) a colloquio con Claudio Beccalossi.

Questa intervista (finora inedita) è stata realizzata il 25 gennaio 1988 e fa parte del materiale fotogiornalistico raccolto durante un tour attraverso l´India intrapreso tra il 12 gennaio e l´8 febbraio di quell´anno.
 

Pondicherry (India) – Lungo la costa, a circa 120 chilometri da Madras (oggi Chennai, n.d.t.), capitale dello Stato del Tamil Nadu, nel sud dell’India affacciato al golfo del Bengala ed all’isola di Sri Lanka, Pondicherry (in francese Pondichéry), ex territorio francese nell’imperia-lismo britannico d’altri tempi, mantiene il vecchio aspetto coloniale quasi per non mancare all’appuntamento con le tracce europee ben evidenti nell’architettura di molti edifici. È qui, in questa cittadina (territorio federato di cui è capitale) dai tratti sonnolenti e viva di natura nei dintorni tropicali, che da più di vent’anni (nel 1988, n.d.t.) prepara il suo stato iniziatico l’occidentale dal maggior periodo di permanenza nell’ashram di Sri Aurobindo. Ashram dedicato, appunto, al famoso guru Sri Aurobindo Ghose (Calcutta, 15 agosto 1872 – Pondicherry, 5 dicembre 1950) che ebbe per compagna Mirra Alfassa, detta Mère, Madre (Parigi, 21 febbraio 1878 – Pondicherry, 17 novembre 1973).
Magro, capelli annodati dietro la testa, vestito alla foggia indiana, 44 anni (nel 1988, n.d.t.), Bruno Petris è lo straniero che meglio di chiunque altro s’è introdotto nelle maglie direttive del complesso organizzativo e d’accoglienza dello Sri Aurobindo Ashram, un nucleo d’attività improntato sul copioso messaggio filosofico lasciato dal guru defunto e che riposa accanto alla compagna nel Samadhi, angolo mistico venerato da schiere di fedeli, posto in uno spazio interno dell’edificio principale dell’ashram.
Diventato, grazie alla sua lunga “militanza” indiana, un profondo conoscitore della vita pubblica e privata del centro di spiritualità di Pondicherry, Petris è stato la valida “guida” di giornalisti e troupes televisive, anche della Rai, che hanno voluto saperne di più sul “fenomeno” Aurobindo e su Auroville, la città intitolata allo stesso Ghose, che sorge dispersa su una zona in precedenza semi desertica ed abbandonata a se stessa.
    Formata da case erette ed abitate dai seguaci del guru (case che restano proprietà dei residenti finché questi vi dimorano), Auroville, più che una città, è un territorio concesso dal governo indiano perché vi si sviluppassero opere sociali, culturali ed artigianali dirette da membri dell’ashram.
Inaugurata il 28 febbraio 1968, la “Città di Aurobindo (e degli aurobindiani)” è dominata dal ciclopico Matrimandir (la “sfera di Auroville”), progettato esternamente da un architetto francese, Roger Anger ed internamente dal designer italiano Paolo Tommasi. Una volta terminata la sua costruzione, sarà l’imponente mausoleo dedicato alla memoria di Mère.
«Sono nato in Dalmazia e, quindi, mi manca una patria fin dall’infanzia. – racconta Petris nel lussureggiante giardino d’una villa in stile coloniale di Pondicherry di cui occupa alcune stanze sempre sottosopra – Assieme alla famiglia, lasciammo la Dalmazia nel ’45 per sistemarci a Torino, città nella quale mi ritrovai, anni dopo, iscritto alla facoltà di Lettere quando già s’avvertivano i primi sintomi della crisi rivoluzionaria, esistenziale che poi sfociò nei movimenti del ’68». 
«Torino mi soffocava con l’ideologia del finire in fabbrica a lavorare senza altre alternative che non fossero giudicate sbagliate. Assistetti ai neonati fermenti anarchici e, in un certo senso, feci anche parte di questi gruppi rivoluzionari i cui schemi erano ancora teorici nonostante la tendenza a far scoppiare bombe ed a sparare in piazza».
«In quell’epoca frequentavo amici artisti, musicisti alcuni dei quali, in seguito, divennero famosi. Personaggi, cioè, come Gato Barbieri (Leandro “Gato” Barbieri, Rosario, Argentina, 28 novembre 1932, sassofonista jazz, n.d.t.) ed Enrico Rava (Trieste, 20 agosto 1939, trombettista, compositore, scrittore e flicornista italiano di musica jazz, n.d.t.)».
«In un determinato punto della mia vita torinese – continua l’aurobindiano – mi trovai nel mezzo d’una crisi che mi fece lasciare gli studi e mi tolse l’interesse per qualsiasi tipo di carriera. Presi perfino a bere, a trascinarmi nello sbandamento degli stupefacenti. Con una simile situazione di sballo che tendeva ad aggravarsi, mi recai a Parigi per un festival jazz anche e soprattutto per tentare di stabilirmi fuori Torino. Nella capitale francese e sulla Costa Azzurra sentii parlare insistentemente di beat generation, di viaggi in Oriente ed in India e, così, tra il ’65 ed il ’66, mollai gli ormeggi partendo prima per Istanbul e, poi, per il Medio Oriente». 
«In quei luoghi – prosegue con indubbio stile narrativo Bruno – maturai la decisione di venire in India per motivi culturali e spirituali. Prova una sorta d’apertura verso l’esperienza degli ashrams che sconvolse la mia crisi e mi portò a ritenere importante il capire cos’era l’intuizione, l’energia interna. L’idea, la curiosità, quindi, si trasformarono in desiderio d’arrivare in India via terra attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan. Ma non avevo fatto i conti con la chiusura delle frontiere indiane a causa della tensione con lo Stato confinante e, perciò, mi spostai dal Pakistan a Ceylon (l’attuale Sri Lanka) da dove, lasciata Jaffna, raggiunsi Rameswaram, in India ed in seguito Pondicherry».
Quando arrivò alla sua méta nel ’66 assieme alla moglie Paola, Petris sapeva appena dell’esistenza di Sri Aurobindo. In quei sei mesi del suo primo approccio indiano avvenne il fatidico incontro con Mère che doveva accordare o meno ai due italiani il permesso di stabilirsi alla sua “corte”.
«A Pondicherry, nel ’66, non esistevano strutture turistiche – ricorda Petris – e l’ambiente occidentale presente era borghese. L’ashram, a sua volta, era molto chiuso, quasi esclusivamente indiano e privo di apporti giovanili».
Trascorsi sei mesi, la coppia ritornò in Italia con un viaggio in nave durato quindici giorni e che si concluse a Venezia.
«Il nuovo impatto con Torino fu addirittura traumatico. Vi rimanemmo circa un anno prima di tornare in India e trascorrere i primi mesi di soggiorno a Promesde, la comunità precedente l’apertura della città creata nel rispetto dei dettami di Aurobindo. All’inaugurazione di Auroville, nel febbraio 1968, fui incaricato di rappresentare l’Italia assieme ad un’altra ragazza. Alla cerimonia erano presenti esponenti dei vari Paesi del mondo e, ognuno, con una manciata di terra della propria nazione».
«Auroville assunse il ruolo di città in cui poter vivere completamente lo yoga (nella terminologia delle religioni originarie dell’India, con il sostantivo maschile sanscrito yoga si identificano le pratiche ascetiche e meditative. Non è strettamente connesso a qualche particolare tradizione hindu ed è inteso soprattutto quale tramite di “realizzazione e salvezza spirituale”, n.d.t.) integrale ma io stabilii di non abitare in questo nuovo spazio più adatto ai tecnici ed agli operatori fattivi. Mi fermai nell’ashram, a Pondicherry, per curare i miei interessi culturali. Iniziai a lavorare alla scuola del Centro d’educazione, a collaborare con Case editrici correggendo bozze, a scrivere articoli in inglese ed in francese per periodici dell’ashram. Studiai sanscrito e bengali mentre ora mi dedico al tamil, lingua locale». 
Separatosi dalla moglie (che, tuttavia, continua a vivere a Pondicherry), Petris ha avuto da una relazione con una donna tamil una bellissima bambina, adesso di 7 anni (nel 1988, n.d.t.) e di nome Durga, che è quasi la realizzazione della nuova identità dell’italiano senza voler con questo sminuire, ovviamente, l’altro figlio di 20 anni (nel 1988, n.d.t.) fatto volutamente nascere ad Auroville e chiamato, per l’ennesimo omaggio al guru defunto, Aurofiglio.

       

Un’immagine giovanile di Sri Aurobindo Ghose e Mère (Mirra Alfassa) in una vecchia foto

Rientrato in Italia solo nel 1982 dopo la lunga permanenza indiana, Bruno Petris afferma di non avere particolari bisogni nella sua monastica vita. L’ashramstesso provvede alle sue necessità (dai vestiti al cibo – obbligatoriamente e rigorosamente vegetariano – ed all’alloggio ma non al denaro) dando in cambio prestazioni d’opera.
«Sri Aurobindo? Il suo messaggio è talmente vasto che non si può parlarne in termini generici. La filosofia aurobindiana è spiegata in trenta grossi volumi scritti per una nuova coscienza che ha già i suoi riferimenti nell’ambito della cultura indiana. La prima esperienza di Aurobindo si concretizzò col Nirvana, nell’annullarsi col pensiero. Il suo yogacominciò là ed andò avanti esplorando il subconscio».
«La presenza del guru nella crescita culturale indiana è un fatto verificabile. – tiene a sottolineare Petris – Introdurre tali elementi culturali nell’Occidente è, oggi, una necessità che, con una consapevole fatica, va realizzata come educazione di base. La cultura dell’Oriente, infatti, dovrebbe integrarsi con quella dell’Occidente, valutando in senso positivo l’intuizione spirituale, facoltà principale dell’India, quale primo passo verso la Supermente».
Bruno Petris manca di parole per definire Sri Aurobindo. Per lui è stato soprattutto uno yogi. E, quale esempio di yogi, anni fa attirava a Pondicherry persone d’un buon livello intellettuale mentre ora, usando le stesse parole dell’italiano, “arrivano più che altro degli scalzacani”».
«Aurovillepoteva essere il veicolo migliore del- l’ideologia aurobindiana ma, invece, al presente è il segno tangibile dei dissidi che continuano se non si aprono gli occhi. Nonostante alcuni nèi del “dietro le quinte” della “Città degli aurobindiani”, è innegabile che la società moderna va verso esperienze del tipo di Auroville. Se non ne fossi convinto, io stesso non sarei qui e così pure tanti altri devoti come me».
«Ed è anche vero che l’educazione prosegue per tutta la vita – asserisce Petris – magari cogliendo le varie verità andando al di là delle religioni ed approfondendo la fondamentale conoscenza del se stesso».
Integratosi in pieno nell’organizzazione dell’ashram di Pondicherry (fulcro di varie attività sociali, culturali e sportive che, anche con la gestione dell’albergo per gli ospiti – Sri Aurobindo Ashram – Park Guest House – , della mensa e con la vendita di materiale quale libri ed incenso, permette una gestione finanziaria autonoma), Bruno Petris non soffre di… mal d’Italia. Quando vorrà (e potrà, considerata la rigidezza economica dell’ashram) vi tornerà principalmente per curiosità. Per vedere, cioè, quanto riesce a resistere in una società così diversa da quella raggrumata attorno al Samadhi di Aurobindo e della Mère, in quel minuscolo lembo d’India che ha voluto (od ha tentato?) Auroville.

DOPO RICERCHE ESPLETATE SU INTERNET E CON E-MAIL, LA RISPOSTA AL DUBBIO: «BRUNO PETRIS È PURTROPPO MORTO IN INDIA QUALCHE ANNO FA…»

(C. B.) – Se la matematica non è un’opinione e Bruno Petris, nel 1988, aveva 44 anni, oggi ne avrebbe raggiunto 71. Se la morte, sopravvenuta, non gli avesse fatto lo sgambetto. Purtroppo, infatti, le mie ricerche espletate su Internet e tramite e-mail, hanno raggiunto la certezza della sua scomparsa, cassando definitivamente la sua lunga presenza a Pondicherry come ashramita devoto di Sri Aurobindo e padre di Durga, adesso di 34 anni.
Il dalmata-torinese, quindi, non è più immerso nelle calde atmosfere di Pondicherry, cittadina classificata come municipality e che, nel 2001, contava 220.749 abitanti (dato che cresceva a 505.959 considerando l’agglomerato urbano), capoluogo del distretto omonimo, nel territorio federato di Pondicherry del quale è capitale. La particolare natura autonoma dell’abitato, pari a quella d’una città-Stato, proviene dal suo carattere storico francese, ben differente dai canoni dell’India britannica. Le lingue parlate sono il tamil, l’inglese ed il francese ma furono per primi i portoghesi ad approdare nel 1520 nella zona, poi imitati da olandesi e danesi. Diventò una colonia francese nel 1674, con una cinquantina di villaggi in mano francese nel 1750. Dato che rompeva le uova nel paniere del suo espansionismo, l’arroganza britannica assediò varie volte Pondicherry cercando di piegarla al proprio volere. Cadde in mano inglese tre volte e per altrettante occasioni tornò ai francesi. Con un definitivo trattato del 1816, la Francia mantenne il potere su Pondicherry fino al 1954, quando la cedette all’India.
La “navigazione” su Internet m’ha fornito varie tracce da… pedinare. Un articolo di Bruno Petris viene ripreso nel sito http://philpapers.org/rec/PETTAS-2 (Bruno Petris. Towards a synthesis of art, science and spirituality – notes on transdisciplinarity): “This article, originally meant for an Auroville publication, consists mainly, besides the quotations, of a wide range of suggestions related to a transcultural approach to various questions raised by transdi-sciplinary research etc.”.
Inquietante (per i verbi al passato accennando a Petris) è, invece, la pagina http://www.savitri.info/?page_id=2068 del sito www.savitri.info. Il sito “è simbolicamente dedicato a Sāvitrī, il poema epico di Sri Aurobindo”. I contenuti di www.savitri.info sono curati da Maurizio Mingotti”. La pagina intitolata “Dicembre 2010” (periodo relativamente recente) riporta: “Abbiamo già segnalato l’uscita del primo numero della rivista online Usha, che è visibile e scaricabile qui. Questo primo numero di Usha contiene, tra l’altro, una piacevolissima sorpresa: la traduzione, opera di Bruno Petris, di un passaggio di Sāvitrī. Bruno era giunto a Pondicherry nel 1967, dove divenne ashramita. Restò in India per tutto il resto della sua vita. Negli anni ‘80 ebbi modo di conoscerlo bene e di apprezzarne le molte qualità. Passavamo intere serate a parlare di come tradurre Sāvitrī: lui aveva un approccio alto, poetico, mentre io ero più preoccupato delle obiettive difficoltà dell’opera”. (…) “Bruno era un traduttore estremamente creativo e interessante ma si capiva, già allora, che difficilmente avrebbe completato un poema come Sāvitrī. Chi lo ha conosciuto sa che non era tipo da sottoporsi a nessun tour de force: una sera (forse era il 1987) sul lungomare di Pondicherry mi disse, «Sai, in fondo sono ancora giovane per tradurre Sāvitrī – ho solo quarantacinque anni». Era consapevole che in certe cose non esistono scorciatoie. A mio avviso, poeticamente, aveva grandi qualità liriche. Cercava l’immagine impressionista (era di rara bravura in questo) e se per trovarla doveva sacrificare qualcosa della fedeltà alla lettera dell’originale, non aveva eccessive reverenze. I passaggi che aveva già tradotto erano oggetto di continua revisione, soprattutto (com’è comprensibile) il Primo Canto. L’amica Mimma Saia è riuscita a salvare copia di una parte delle traduzioni di Bruno e di questo tutti dobbiamo esserle grati”.
Contattato il 16 ed il 27 luglio c.a. all’indirizzo e-mail citato in “About” perché potesse fornire indicazioni sull’eventuale presente di Bruno Petris, il curatore del sito, Maurizio Mingotti, il 28 luglio m’ha infine risposto così: “Gentile sig. Beccalossi, buongiorno a lei. Ho inoltrato la sua e-mail, non appena l’ho ricevuta, all’unico parente di Bruno Petris di cui io abbia ancora un recapito, vale dire il figlio che lui ebbe a Pondicherry dalla moglie italiana. Bruno, posso confermarglielo, è purtroppo morto in India qualche anno fa. Anche la moglie è deceduta da tempo. Non ho mai avuto contatti con la figlia che ebbe da una signora indiana, né con altri membri della famiglia. Da quanto mi scrive ora, sembra che il figlio non le abbia ancora risposto (non ha risposto neppure a me e non so neppure se l’indirizzo che ho io, vecchio di qualche anno, sia ancora attuale). Ma se ha letto la sua e-mail e se è interessato a risponderle, senz’altro le risponderà qualcosa. Glielo auguro per il migliore esito del suo lavoro. Cordiali saluti. Maurizio Mingotti”.
Sono crude, con qualche errore, le pagine su Internet di “Intelligence & Geostrategies Analisys” (http://adriaticus-confidential.blogspot.it/2009/09/la-strenua-difesa-di-cherso-e-lussino...), datate 17 settembre 2009 ed intitolate “Compagnia Tramontana: Cherso e Lussino” (fonte “Rinascita”), che parlano dei genitori e del fratello di Bruno, con riferimenti all’optare di quest’ultimo per l’India. Ecco le parti più salienti: “Dopo il tragico 8 settembre 1943, tra la notte del 17 e 18 dello stesso mese, le isole del Quarnero venivano occupate dai partigiani di Tito, il 13 novembre, in seguito ad un’offensiva tedesca in Balcania si ritiravano precipitosamente ed i Titini venivano sostituiti dai Tedeschi. I presidi erano dislocati nelle cittadine di Cherso, Óssero e Lussinpiccolo mentre il compito di ricordare ufficialmente che le isole erano territorio Italiano era spettato ai 100 uomini della Compagnia della Tramontana (CpT). Il gruppo apparteneva al Reggimento Istria, il loro comandante era il tenente Stefano Petris. La CpT faceva parte della Milizia Difesa Territoriale (MDT) della Guardia Nazionale Repubblicana dal 31/01/1945 aveva una forza complessiva di 545 ufficiali, 1296 sottoufficiali, 7543 uomini di truppa (effettivi 9384)” (…) “La Compagnia della Tramontana era formata per lo più da militi provenienti dal Castello di Caìsole e dal vicino villaggio di Dragosetti e dalla cittadina di Cherso. I pochi e poco esaurienti documenti indicavano genericamente i volontari come da Cherso. I punti di riferimento per i giovani isolani che si erano arruolati erano state le figure dei Tenenti Domenico Bandera da Caìsole e Stefano Petris da Cherso. Le notizie sul destino dei militi purtroppo ancora oggi sono incomplete”. (…) “Petris Stefano, n. a Cherso il 22/12/1913, insegnante, Tenente Comandante la Cp. Tramontana, giustiziato a Fiume il 10/10/1945. Il 20/04/1945 iniziavano gli attacchi aerei e dal mare, i partigiani di Tito che vestivano divise inglesi sbarcavano nella Baia Verìn sita ad Occidente della cittadina di Óssero”. (…) “Alle ore 10.30 il settore meridionale di Cherso veniva abbandonato dalla guarnigione Tedesca in ritirata, S. Petris accorreva con un pugno di militi e riusciva a fermare per il momento l’avanzata”. (…) “Caduto Silvio Tomaz presso la sua abitazione, a Stefano Petris rimanevano soltanto una ventina di militi”. (…) “In un’aula della Scuola (Elementare Vittorio Emanuele III e Regina Elena) Suor Carla (Atteims) aveva allestito un posto di pronto soccorso di fortuna dove oltre a S. Petris erano stati medicati altri militi diventando, come Tonetti una preziosa testimone”. (…) “Qua le tragedie si ripetono sempre diverse, terribili e definitive, così è stato anche per Stefano Petris e la sua discendenza che può riassumersi in poche parole: «Da Cherso all’India, alla ricerca dell’origine». Perché Stefano che era stato fucilato nel lontano 1945 ancora una volta doveva essere il protagonista di fatti che nati nel Quarnero si dovevano concludere in India? Trascorsi 45 anni da quando in quel tragico 20 aprile 1945 si era combattuta la battaglia di Cherso, Giannina mi aveva voluto parlare di suo marito”. (…) “Stefano Petris superstite della battaglia del 20 aprile 1945, ferito si era rifugiato nella scuola Elementare che lo vide scolaro ed insegnante e licenziati i suoi militi della Compagnia della Tramontana formata da giovani di Cherso e di Caìsole, dopo essere stato medicato si consegnava ai partigiani di Tito”. (…) “Dopo i consueti convenevoli, non richiesta, ci veniva raccontata la storia riveduta e corretta di S. Petris, in sintesi: «Il vigliacco si era asserragliato nella Scuola Elementare colma di alunni ai quali si erano uniti quelli della Scuola Materna troppo esposta». Ci sondavano per vedere da che parte stavamo ma non potevano sapere che ci era noto che le lezioni erano state sospese in previsione degli scontri cruenti”. (…) “Stefano confidando nell’applicazione della Convenzione di Ginevra nei confronti dei prigionieri di guerra e nel Governo legittimo, confidava che alla sua resa sarebbe seguito uno scambio di prigionieri”. (…) “L’angoscia di Giannina era diventata insopportabile quando era venuta a sapere che 15 concittadini tra uomini e donne (non aveva voluto confidarmi i loro nomi) avevano firmato per il Tribunale del Popolo un verbale contenente le testimonianze che dimostravano come Stefano fosse un pericoloso nemico del popolo, in pratica avallando la sua condanna a morte. L’ultima speranza per la giovane moglie era stata quella di rivolgersi ad un noto avvocato di Fiume colluso con i Titini che per accettare l’incarico di difendere Stefano aveva chiesto un acconto di 3.000 lire. Mentre Giannina cercava di aiutare il marito ed il legale pretendeva altro denaro, il prigioniero veniva portato da una località all’altra tra Abbazia e Susak per essere sottoposto ad estenuanti interrogatori e crudeli sevizie”. (…) “Refrattario alle lusinghe bisognava eliminarlo. Da Abbazia veniva portato a Susak e qui rinchiuso in una cella assieme ad altri tre prigionieri”. (…) “L’ultimo viaggio di Stefano era iniziato verso la prigione di Fiume mentre l’avido legale che ufficialmente era sempre il suo difensore, chiedeva un ulteriore acconto che in parte doveva servire per ottenere il permesso per un colloquio tra i coniugi Petris. L’appuntamento era stato fissato per le ore 9 del 10 ottobre, il legale non si era presentato e Giannina non l’avrebbe visto mai più. Alle ore 11 la giovane donna decideva di entrare nella Prigione per chiedere informazioni, in Portineria le veniva letto quanto contenuto in un registro: «Il detenuto è stato fucilato nelle prime ore di questa mattina». Era il 10 ottobre 1945”. (…) “La famiglia era smembrata e mentre la mamma si trovava a Pola i suoi bambini, Bruno di 3 anni, Romano di pochi mesi ed i suoi genitori erano rimasti a Cherso”. (…) “La famiglia esule riusciva a raggiungere Torino dove Giannina avrebbe insegnato sino al pensionamento”. (…) “Bruno e Romano dopo aver concluso brillantemente gli studi universitari, affascinati dalle filosofie indiane volevano allontanarsi dall’Italia. Il figlio maggiore si sposava in Olanda, dal matrimonio nasceva una figlia ma non soddisfatto si trasferiva per breve tempo in Turchia e già prima di separarsi dalla moglie abbracciava la filosofia dei veggenti pensatori Veda e della reincarnazione. Madre e figli guardavano lontano l’India per cercare l’origine, così mi disse Giannina, erano certi di averla trovata ad Aurobindo Ashram – RSI (Pondichéry). Da parecchio tempo Bruno insegnava dottrina filosofica, ha la figura di un asceta che ricorda lontanamente il padre, porta la barba lunga, indossa una lunga tunica bianca e dei semplici sandali di cuoio. Dopo alcune fuggevoli relazioni con delle ragazze indiane, si univa ad una giovane domestica di stirpe Tamil. La giovane donna appartiene ad una casta inferiore e secondo le leggi indiane non può inserirsi in una casta superiore, ogni sera aveva l’obbligo di raggiungere il suo villaggio, sito fuori dei limiti della città dove si trovava la capanna di famiglia con il pavimento in terra battuta. Giannina era convinta che la ragazza non desse troppo peso all’imposizione. Da questa unione, impossibile da ufficializzare, era nata una figlia che chiamerò Z., fatto che farà decadere Bruno che non potrà più insegnare filosofia. Romano, il figlio minore di Stefano, amava raggiungere Bali dove acquistava delle pietre dure poi, con il treno partiva alla volta di Trieste intraprendendo dei viaggi molto avventurosi”. (…) “I due fratelli Petris sempre alla ricerca dell’origine si distaccavano sempre di più dall’Europa, Bruno l’aveva individuata ad Aurobindo Ashram e Romano forse a Bali. Giannina coinvolta dalla scelta dei figli decideva di vendere l’appartamento di Torino per trasferirsi a Trieste dove ne affittava uno in Viale d’Annunzio per essere vicina a Romano quando con la compagna Mariela, tra un viaggio e l’altro vi soggiornava per breve tempo. Con il capitale ricavato a Torino veniva acquistato in India un esteso terreno e veniva iniziata a costruire una villa che doveva rappresentare l’approdo sicuro per i tre Petris”. (…) “Per parecchio tempo Giannina era stata assillata da non poter mettere la proprietà a nome suo in quanto la legge indiana proibiva a qualsiasi straniero di possedere terreni o beni immobili. Poi la decisione, veniva messa a nome dalla nipotina Tamil”. (…) “La nipotina Tamil ama danzare ed indossare braccialetti e collane colorate, non può portare il cognome Petris perché la legge non lo permette”. (…) “A 78 anni Giannina si trasferiva definitivamente in India per vivere nella casa della nipote, la legano ancora all’Italia la pensione che in India viene erogata con parecchie difficoltà burocratiche. Nel giorno di un Natale di qualche anno fa, Romano moriva a Bali per overdose, la sua affezionata compagna Mariela, cittadina croata aveva potuto ereditare a Cherso la casa che era stata della mamma di Stefano e della zia Angiolina”. (…) “Ora la discendenza di Stefano si perpetua lontana da Cherso in una piccola danzatrice dal visetto abbronzato, felice di esibire intorno all’esile collo ed alle braccia collane e braccialetti colorati” (…) “Trascorsi dieci anni da quando Giannina aveva voluto interrompere i nostri rapporti epistolari per conservare gelosamente intatti i nostri pensieri, di lei mi restano qualche cartolina e qualche cartoncino di provenienza indiana”. (…). “Da allora non ho più avuto sue notizie ma mi riferiscono che ormai novantenne si è stabilita in India”. 

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Ultimo aggiornamento Mercoledì 14 Ottobre 2015 20:46
 

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